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Chiudere questa Ferriera per aprire Trieste al futuro.
Scritto da: Teodor

Questo stava scritto sull'enorme striscione appeso sulla facciata del Municipio quando undici cittadini avevano occupato per un giorno la sala del Consiglio comunale nel corso della due giorni di manifestazioni promosse dal Circolo Miani in piazza Unità con centinaia e centinaia di partecipanti.

Era ancora sindaco Dipiazza e la risposta del Comune fu di denunciare le undici persone, che il PM Frezza rinviò a giudizio chiedendo pene che mai si era sognato di proporre nelle sue arringhe verso i vertici della Ferriera, e che, come era scontato, vennero assolte dal Tribunale sempre “perchè il fatto non sussiste”.

Ma perché la vicenda Ferriera è così importante per Trieste? Per i 400 e passa posti di lavoro, in una provincia che in tutti i settori produttivi ne perde sottovoce ogni anno molti di più? Per quello che produce? Carbon coke e ghisa che comprarli altrove costerebbero parecchio di meno, spedizione compresa?

La questione Ferriera in realtà è dal 1998, ed ufficialmente dal 2001 quando la proprietà annunciò formalmente la volontà di chiuderla, la cartina di tornasole del totale fallimento di una classe dirigente (politica, istituzionale, industriale, sindacale e manageriale) triestina e regionale.

Un fallimento durato quindici anni perlomeno e che ha sprecato tutte le occasioni, a partire dagli appositi fondi europei, per realizzare altre ipotesi produttive, a partire da quella più naturale, cioè legata alla portualità, e per aumentare l’occupazione lavorativa a Trieste.

Qualunque rilancio economico della città passa attraverso la soluzione dello snodo Ferriera. Sia che si voglia finalmente dar seguito a decenni di parole al vento sulla “sinergia” da attuare tra la “cittadella” della scienza e della ricerca e le imprese ad alta tecnologia, sia che si voglia concretamente rilanciare il porto che ha come esigenza primaria l’acquisizione di nuovi spazi. E lo stabilimento di Servola occupa la più vasta area che si affacci sul mare in provincia.

Ma per fare ciò bisogna partorire una idea, un progetto organico di sviluppo della Trieste attuale.

E a ruota un percorso per attirare finanziamenti pubblici e privati, incentivare la formazione di una manodopera altamente qualificata, studiare un sistema di collegamenti e sovrastrutture adeguati alla bisogna, ovvero a superare l’isolamento del nostro territorio dal suo retroterra naturale, il Centroeuropa.

Creare altresì le condizioni per attirare in città gente disposta ad investire non tanto i soldi ma la propria vita, il loro futuro. E questo inevitabilmente comporta la capacità di offrire servizi adeguati sul territorio: ospedali efficienti e scuole funzionali ad esempio. L’esatto contrario dello status in cui versano oggi a Trieste.

E’ dai primi anni settanta, dalle Giunte Spaccini (Comune) e Zanetti (Provincia) che Trieste non ha più espresso nulla di lontanamente simile. Le amministrazioni che si sono succedute ed i partiti che a turno le sostenevano si sono limitati ad amministrare, e spesso male, la normalità. A tamponare, e spesso con tempi biblici, le emergenze. A gestire la cosa pubblica come una rendita di posizione dove questa politica piazzava i suoi uomini e si scannava, vedi ad esempio l’attuale vicenda della Autorità portuale, in una forsennata guerra per bande finalizzata ad occupare i “posti che contano”.

Idee? Zero. Progetti? Zero.

Dalla politica culturale ai servizi socio assistenziali è stato tutto un declino che andava di pari passo con il saccheggio edilizio delle poche aree disponibili.

Con una scelta “ad escludendum” di qualsiasi partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. Ed i risultati stanno lì a dimostrarlo. Alle ultime elezioni amministrative, le regionali del 2013, solo il 41% degli elettori si è recato a votare.

Dunque che fare? Ne parleremo a breve.



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